Quanti di voi, sfogliando il giornale la mattina, hanno sperato di poter leggere la notizia della scoperta della “cura definitiva del diabete”; quanti hanno immaginato una terapia insulinica rivoluzionaria da praticarsi senza bucarsi con l’ago, o ancora uno strumento che misuri la glicemia senza doversi pungere le dita? Queste, che sembrano fantasie o false illusioni, un giorno più o meno lontano potrebbero diventare una realtà: tutto ciò grazie alla ricerca scientifica, per la quale, tuttavia, non serve “caso” o “genialità”, ma lavoro costante, tempo, pazienza, e finanziamenti. Alcune settimane fa un giovane e valente ricercatore del Policlinico Gemelli (dove lavoro anche io) è salito agli onori della cronaca per la scoperta di una proteina, chiamata p66, che se viene “spenta” è in grado di prevenire la comparsa del diabete di tipo 2. Benché si trattasse di una osservazione condotta su topolini da esperimento modificati geneticamente (certamente ben diversi da noi) ha acceso molto interesse nel mondo scientifico e della comunicazione (anche voi avrete probabilmente letto o sentito la notizia, perché è apparsa in diverse forme su tutti i quotidiani e i telegiornali). Molte persone con diabete o con familiari con diabete, dopo aver appreso la notizia, hanno cercato di contattare il ricercatore e la sua équipe per cercare di capire come quella proteina potesse essere spenta anche nel loro caso, per risolvere il problema del loro diabete. Ovviamente non è così facile e molto deve ancora essere dimostrato. Questa scoperta, che ho voluto usare come esempio perché recente e perché ha avuto un enorme risonanza mediatica, è sicuramente una promessa importante, in quanto permette di aggiungere una tessera in più al puzzle dei meccanismi complessi, e in parte ancora sconosciuti, che regolano il metabolismo e causano il diabete; ma per poter avere rilevanza da un punto di vista clinico ha bisogno di ulteriori conferme, dati sull’uomo (che guarda caso stiamo cercando di realizzare insieme) e qualora confermato, la proteina p66 potrebbe diventare il bersaglio di farmaci per controllare o prevenire il diabete. Capite bene che perché tutto ciò avvenga c’è bisogno ancora di tanta ricerca e tempo.
Io stesso, alla fine degli anni 80, sono andato negli Stati Uniti (confesso, lì è tutto molto più facile) per approfondire le cause e la terapia del diabete, conducendo esperimenti su animali. Tra i vari studi dimostrammo che una sostanza (chiamata florizina, derivante dalla corteccia di alcune piante) era in grado di bloccare il riassorbimento del glucosio da parte del rene, provocando perdita dello stesso con le urine (quella che in termi- ne medico si chiama glicosuria), riducendo la glicemia senza aggiungere o stimolare l’insulina. Così facendo, gran parte degli effetti del diabete venivano rimossi, e si capì l’importanza di mantenere la glicemia normale anche in modo indipendente dall’insulina. Gli esperimenti, anche se solo su animali di laboratorio, sembra- vano molto promettenti, ma quella stessa sostanza non poteva essere utilizzata nell’uomo perché, oltre agli effetti sulla glicemia, aveva effetti importanti collaterali che ne impedirono l’utilizzo per molto tempo. Probabilmente il mio lavoro di ricerca condotto all’estero per diversi anni mi ha permesso di occupare la posizione che ho attualmente, ma sarebbe stato difficile spiegare allora il reale beneficio di quegli esperimenti per le persone con diabete. L’idea, tuttavia, piacque ad altri ricercatori, poi ripresi all’interno di aziende farmaceutiche, che hanno sviluppato nuove molecole capaci di agire come la vecchia florizina, ma senza effetti collaterali. Le nuove molecole hanno dovuto però essere sperimentate prima nell’animale, poi nell’uomo, poi nelle persone con diabete, poi in altre persone con diabete per settimane e mesi in confronto con i farmaci già conosciuti. Sono passati anni (e capelli grigi) e proprio in questi mesi ci sono molte persone con diabete, anche in Italia, che si sono offerte per provare su loro stessi l’efficacia del nuovo farmaco. Quando tutto ciò sarà completato, il farmaco sarà finalmente disponibile nelle farmacie (costi permettendo) per tutte le persone con diabete. È evidente che per fare tutto ciò ci vogliono anni (esattamente 20 anni dai primi esperimenti) e non sempre tutte le ricerche portano a frutto nuove terapie. Tutto questo per rendervi l’idea di come è lungo e complesso il progresso della ricerca. Ma senza ricerca, anche se lentamente, non potremo mai andare avanti.
Cercando di capire cos’è e come funziona la ricerca scientifica possiamo realmente comprendere cosa aspettarci dal futuro, guardandola anche con occhi critici (al fine di evitare premature speranze o falsi miti) ma al tempo stesso per lasciare il giusto spazio all’ottimismo e alle aspettative.
La ricerca scientifica non è un punto di arrivo, non è sinonimo di scienza o di verità, ma è un lungo processo di conoscenza che può porta- re (peraltro non sempre) a compiere dei piccoli ma sicuri passi verso la conoscenza; si basa su ipotesi, esperimenti, interpretazione di dati che a loro volta generano nuove ipotesi. La ricerca va fatta, necessariamente, a piccoli passi; necessita di tempo, dedizione, passione (davvero tanta passione, avrete letto i giornali) e tanta pazienza.
I progetti di ricerca in corso sul diabete sono numerosi; molti di questi, come vedremo, hanno già portato o porteranno a breve ad applicazioni cliniche, cioè a prodotti (farmaci, dispositivi, procedure) che sono o saranno presto in commercio e quindi a disposizione di tutti, altri sono ancora all’inizio, ma sembrerebbero fornire ottime speranze.
Tra le ricerche più note ai più vi sono sicura- mente quelle riguardanti il trapianto di pancreas o di isole pancreatiche. Il trapianto di pancreas è una procedura ormai consolidata e con percentuali di successo sovrapponibile ad altri trapianti. Come per tutti i trapianti, necessita di una importante procedura chirurgica e di una pesante terapia immunosoppressiva per evitare il rigetto e pertanto attualmente viene proposto solo in combinazione con altri trapianti (per la maggior parte il trapianto di rene in quei pazienti con diabete e insufficienza renale cronica), cioè quei pazienti che comunque dovrebbero praticare la terapia immunosoppressiva per il rene tra- piantato. Capite dunque che un trapianto di solo pancreas libererebbe la persona con diabete dal doversi somministrare l’insulina, ma costringerebbe la stessa persona ad iniziare una importante terapia antirigetto, con tutti i suoi effetti collaterali. Poiché il diabete può comunque essere tenuto sotto controllo anche con le attuali insuline (e spero GluNews sia utile anche in questo) ha poco senso percorrere la strada del trapianto “solo” per liberarsi dell’insulina. Al contrario, chi ha comunque una tale insufficienza rena- le da dover affrontare il trapianto di rene, dovrà in ogni caso affrontare la terapia antirigetto, che si sottoponga o no al trapianto di pancreas. Promettenti sono inoltre i risultati dei casi di trapianto di isole di Langerhans (le strutture che secernono insulina e che sono danneggiate nel diabete), sebbene a volte la buona riuscita sia limitata da problemi legati alla non sempre buona qualità di isole pancreatiche trapiantate, dalla scarsità dei pancreas utilizzabili per l’isolamento delle isole (ce ne vogliono tanti) e, anche in questo caso, alla terapia immunosoppressiva. I ricercatori (e l’Italia è all’avanguardia) stanno cercando di semplificare la tera- pia immunosoppressiva, di facilitare l’isolamento delle isole di Langerhans. Alcuni laboratori stan- no cercando di creare in laboratorio “nuove cellule” capaci di produrre insulina, fatte in modo tale da non dover aggiungere farmaci antirigetto; ma i tempi, per una reale applicazione clinica di questo filone di ricerca, sono ancora lunghi. La creazione di farmaci che vanno ad agire su specifici bersagli è un esempio molto calzante di come la conoscenza dei meccanismi fisiopatologici che riguardano il diabete può portare, negli anni, a nuovi strumenti di cura. Parlo di farmaci (alcuni già in commercio, altri in fase di sperimentazione) che oltre a stimolare la secrezione insulinica (solo nel diabete di tipo 2), non sono gravati dai rischi dell’ipoglicemia dei “vecchi” farmaci; alcuni sembrerebbero avere un ruolo di protezione della beta cellula ed hanno un effetto di riduzione del peso.
Numerosi sono gli studi clinici sullo sviluppo di “nuove insuline”, in particolare la sperimentazione di insuline a più lunga durata d’azione (in sostituzione dell’insulina serale) e le formulazioni somministrabili per via inalatoria o per bocca e non più iniettiva. I dati, in particolare su que- ste ultime, sono piuttosto contrastanti e per- tanto necessitano di ulteriore tempo e prove per chiarire meglio le idee. Oltre a nuovi farmaci, importanti sono anche le ricerche in merito ai dispositivi per la somministrazione delle insu- line, dalle penne sempre più maneggevoli, semplici e sicure, ai microinfusori sempre più tecnologici, precisi e discreti.
Per finire le nuove tecnologie degli strumenti di automonitoraggio della glicemia, che consento- no, mediante strumenti innovativi, una maggiore accuratezza dei dati, la creazione di metodiche che riducano, fino ad annullarli, gli eventuali erro- ri o i fattori confondenti. Vi sono perfino degli strumenti che misurano la glicemia continuamente, minuto per minuto. Se questi strumenti si dimostrassero affidabili, potrebbero essere associati ad un microinfusore di insulina. Anche su queste ricerche l’Italia è all’avanguardia.
Abbiamo già visto che nello sviluppo della ricerca le ultime tappe devono necessariamente esse- re percorse su persone con diabete. Potrebbe capitarvi (o magari vi è già capitato), che qualche medico vi chieda di partecipare a qualche studio

FOCUS

clinico. Gli studi clinici (chiamati anche trials), possono essere di diverso tipo e con diverse finalità, ma tutti sono strutturati in maniera precisa, in base a specifici protocolli. Tutti sono approvati da un comitato etico che ne ha verificato l’eticità, i costi ed i benefici per ognuno dei volontari partecipanti. Vi sono trials in cui i ricercatori intervengono diretta- mente sul paziente, somministrando farmaci o altre sostanze e successivamente valutandone l’efficacia; altri si basano esclusivamente sull’osservazione e sulla rilevazione di para- metri, senza alcun intervento sul paziente.
Ogni trial clinico viene strutturato in modo da definire con precisione non solo gli obiettivi da raggiungere, ma anche i criteri di parteci- pazione, che in termini tecnici si definiscono criteri di inclusione ed esclusione. In poche parole potrete partecipare se rientrate in determinati criteri di inclusione e se non pre- sentate nessuno dei criteri di esclusione, per esempio l’età, altre malattie, terapie ecc. Prima di partecipare vi sarà chiesto di firma- re un “consenso informato” che è una sorta di spiegazione sullo studio, sui rischi e sui potenziali benefici che da esso possono derivare. Ciò che molti partecipanti non comprendono è la possibilità che il farmaco somministrato in realtà non contenga nulla. In realtà vi sono molti sintomi che possono ridursi anche grazie al solo “effetto placebo”: per il solo fatto di prendere una pillola, anche se non contiene nulla, alcuni sintomi si possono ridurre (ma non la glicemia). Così, ogni farmaco deve essere confrontato, per primo, con il placebo. La partecipazione ai trial clinici è completamente libera, così come si può decidere di abbandonarlo in qualsiasi momento. Talora bisogna mettere in conto che può verificarsi l’insorgenza di effetti collaterali, oppure non ottenere i risultati attesi da un farmaco. Scegliere di partecipare è una decisione molto importante, perché significa contribuire direttamente alla ricerca scientifica e avere un ruolo da protagonista per migliorare la vostra salute. Significa anche avere la possibilità di essere trattato con farmaci prima che questi divengano disponibili. E se una persona è stata selezionata, significa che i ricercatori ritengo- no che proprio quella persona può trarre particolare beneficio da quel farmaco.
Gran parte di queste ultime ricerche (trial cli- nici) sono sostenute dalle aziende farmaceutiche, che investono somme ingenti ma poi, se tutto va bene, ne guadagnano di più. La parte più importante, più corposa, più pro- mettente, più generosa della ricerca non è sostenuta da aziende, ma solo dagli enti pubblici (in Italia sempre meno; al solito, vi sarà capitato di leggere sui giornali di qualche pro- testa del mondo della ricerca) e dai piccoli contributi di ognuno di noi. Se volete che la ricerca vada avanti, se volete che i giovani ricercatori prendano passione per la ricerca, vadano all’estero ma possibilmente tornino in Italia, se volete davvero che prima o poi si sconfigga davvero il diabete, aiutate la ricerca, contribuite a finanziarla. In fondo lo fate per voi stessi, e per chi vi seguirà.